11 mar 2008

Nuevo gran maestre de Orden soberana de Malta


Frey Matthew Festing, es desde este martes 11 de marzo el 79° príncipe y gran maestre de la Orden Soberana Militar de Malta. Fue elegido en el Consejo de Estado, reunido en la Villa Magistral de la Orden en Roma.
Luego de su elección, y de haber aceptado el cargo, prestó juramento frente al Consejo de Estado, al cardenal patrono de la Orden, Pío Laghi.
El británico sucede a Frey Andrew Bertie, gran maestre de 1988 a 2008, fallecido en Roma el pasado 7 de febrero.
Frey Matthew Festing conoce bien a la Orden, por ser desde hace 15 años el Gran Prior de Inglaterra, desde la reconstitución del Gran Priorato en 1993. En este papel, desempeñó misiones de asistencia humanitaria en Bosnia, Serbia, Croacia y Kosovo y ha guiado cada año la delegación de Gran Bretaña en la peregrinación anual de la Orden a Lourdes con los enfermos.
Es originario de Northumberland, donde nació en 1949, estudió en Ampleforth y en el St. John's College de Cambridge donde se graduó en historia.
Es esxperto en arte, desarrollo su actividad profesional en una casa internacional de subastas. De niño vivió en Egipto y Singapur, a donde había sido destinado su padre el Mariscal del Aire Sir Francis Festing. Desciende del beato Adrián Fortescue, caballero de Malta, mártir en 1539.
Frey Matthew Festing ha servido en los Granaderos, donde reviste el grado de Coronel de la reserva. Fue distinguido con el grado de Oficial de la Orden del Imperio Británico por la Reina Isabel II, de la que es uno de sus representantes en el condado de Northumberland.
Ingresó en la Soberana Orden de Malta en 1977, y se convirtió en caballero profeso de votos perpetuos en 1991.
Apasionado de artes decorativas y de historia, es conocido por sus conocimientos enciclopédicos sobre la Orden de Malta.
La Soberana Orden Militar y Hospitalaria de San Juan de Jerusalén, de Rodas y de Malta, más conocida como la Soberana Orden de Malta, tiene un carácter doble: es una de las más antiguas órdenes religiosas católicas, siendo fundada en Jerusalén alrededor del año 1048; al mismo tiempo, siempre ha sido reconocida por las naciones como un ente independiente de Derecho Internacional.
La misión de la Orden está definida en su lema «Tuitio Fidei et Obsequium Pauperum», la defensa de la Fe y el servicio a los pobres.
La Orden dirige numerosos hospitales, centros médicos, ambulatorios, estructuras especializadas para responder a emergencias humanitarias en 120 países.
Actualmente está compuesta por 12,500 miembros y por 80,000 voluntarios permanentes, asistidos por 13,000 médicos, enfermeros, y personal sanitario.
Más información en http://www.orderofmalta.org

Nuevos pecados capitales

"El Vaticano no ha publicado una nueva lista de los siete pecados capitales", han aclarado este martes fuentes de la Iglesia católica.
La Oficina de Comunicación de la Conferencia Episcopal de Inglaterra y Gales, ha emitido un comunicado para hacer esta aclaración en respuesta a varios artículos de prensa.
"No existe ningún edicto vaticano nuevo", aclara el comunicado, explicando que la confusión se ha debido a la interpretación que han hecho algunos órganos informativos de una entrevista publicada en la edición italiana cotidiana de «L'Osservatore Romano», con fecha del 9 de marzo.
El entrevistado es monseñor Gianfranco Girotti, obispo regente del tribunal de la Penitenciaría Apostólica. El penitenciario mayor es el cardenal estadounidense James Francis Stafford.
El periodista Nicola Gori ha preguntado al prelado: «¿Cuáles son, según usted, los nuevos pecados?».
«Hay varias áreas dentro de las cuales hoy percibimos actitudes pecaminosas en relación con los derechos individuales y sociales», responde monseñor Girotti.
«Ante todo el área de la bioética, dentro de la cual no podemos dejar de denunciar algunas violaciones de los derechos fundamentales de la naturaleza humana, a través de experimentos, manipulaciones genéticas, cuyos efectos es difícil prever y controlar».
«Otra área, propiamente social, es el área de la droga, con la que se debilita la psique y se oscurece la inteligencia, dejando a muchos jóvenes fuera del circuito eclesial».
Está también «el área de las desigualdades sociales y económicas, por las que los pobres se hacen cada vez más pobres y los ricos cada vez más ricos, alimentando una insostenible justicia social, el área de la ecología, que reviste hoy un importante interés».Puede leerse la entrevista original en italiano en
http://www.zenit.org/article-13786?l=italian
ZI08031111 - 11/03/2008Permalink: http://www.zenit.org/article-13786?l=italian
Nessuna nuova lista di sette peccati mortali da parte del Vaticano
Confutate le interpretazioni diffuse da alcuni media
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 11 marzo 2007 (
ZENIT.org).- “Il Vaticano non ha pubblicato una nuova lista di sette peccati mortali”, hanno spiegato questo martedì fonti della Chiesa cattolica.
Tra le altre, l'Ufficio Comunicazione della Conferenza Episcopale di Inghilterra e Galles ha emesso un comunicato per chiarire questo aspetto in risposta a vari articoli della stampa.
“Non è un nuovo decreto vaticano”, osserva il testo, spiegando che la confusione è stata originata dall'interpretazione che alcuni organi informativi hanno dato di un'intervista pubblicata nell'edizione italiana quotidiana de “L’Osservatore Romano” del 9 marzo.
L'intervistato è monsignor Gianfranco Girotti, Vescovo reggente del tribunale della Penitenzieria Apostolica, mentre il Penitenziere Maggiore è il Cardinale James Francis Stafford.
Il giornalista Nicola Gori ha chiesto al presule quali siano secondo lui i nuovi peccati.
“Vi sono varie aree all'interno delle quali oggi cogliamo atteggiamenti peccaminosi nei riguardi dei diritti individuali e sociali”, ha risposto monsignor Girotti.
“Innanzitutto l'area della bioetica, all'interno della quale non possiamo non denunciare alcune violazioni dei fondamentali diritti della natura umana, attraverso esperimenti, manipolazioni genetiche, i cui esiti è difficile intravedere e tenere sotto controllo”.
“Un'altra area, propriamente sociale, è l'area della droga, attraverso cui si indebolisce la psiche e si oscura l'intelligenza, lasciando molti giovani al di fuori del circuito ecclesiale. Ancora: l'area delle sperequazioni sociali ed economiche: nelle quali i più poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, alimentando una insostenibile ingiustizia sociale, l'area dell'ecologia, che riveste oggi un rilevante interesse”.Pubblichiamo di seguito il testo integrale dell’intervista.
* * *
Le nuove forme del peccato sociale
di Nicola Gori
Manipolazioni genetiche; inquinamento ambientale; sperequazioni sociali; insostenibile ingiustizia sociale: ecco le nuove forme di peccato affacciatesi all'orizzonte dell'umanità, quasi come corollario dell'inarrestabile processo di globalizzazione. Una sfida nuova anche per un dicastero, quello della Penitenzieria Apostolica, che fa fatica a riaffermare persino il proprio ruolo in un'epoca in cui viene meno la stessa percezione del peccato. Monsignor Gianfranco Girotti, vescovo reggente della Penitenzieria, ne parla in questa intervista rilasciata a "L'Osservatore Romano", all'indomani della conclusione del corso per confessori.
La Penitenzieria Apostolica sembra un oggetto misterioso per l'opinione pubblica, ma anche per buona parte dei fedeli.Quanto afferma, purtroppo, ha un riscontro nella realtà. Pur essendo attualmente il più antico organismo della Curia romana - dopo la soppressione della Dataria, avvenuta nel 1967 e della Cancelleria, avvenuta nel 1973 - è poco conosciuto persino da grande parte del clero. Il motivo forse va ricercato nel fatto che la sua attività rifugge da quella visibilità che è più legata ai compiti degli altri dicasteri. La Penitenzieria Apostolica, tra i dicasteri della Curia romana, infatti, è quella che svolge, in maniera sempre diretta, un'attività propriamente spirituale, la più consona con la missione fondamentale della Chiesa, che consiste nella salus animarum.
È l'organo universale ed esclusivo del Pontefice in materia di foro interno. Si ricorre al foro interno non solo per i peccati, le censure e le irregolarità, ma in genere per situazioni occulte, come ad esempio dispense, sanazioni, convalide di atti nulli derivanti da circostanze occulte. Esamina, inoltre, e risolve i casi di coscienza che le vengono proposti. Risolve dubbi in materia morale o giuridica, quando si tratta di circostanze occulte o di fatti concreti individuali.
Qual è il valore delle vostre risposte?
Si tratta propriamente di un valore autoritativo - a seconda dei casi, precettivo o liberatorio - solo per le circostanze reali e singolari che vengono proposte e non invece per gli altri casi, ma che agli altri quelle risposte possono estendersi come criterio prudenziale. Cioè gli orientamenti dottrinali e disciplinari inclusi nelle soluzioni stesse possono essere con prudenza applicati dal sacerdote che si è prestato a fare il ricorso, per analogia, in un ambito più largo, in nessun caso però è permesso di divulgare quelle risposte.
Ha ancora un senso un organismo come la Penitenzieria dal momento che sembra creare dei problemi a livello ecumenico?Trovo difficile cogliere le ragioni e i motivi obiettivi di questo presunto disagio che la Penitenzieria creerebbe sul piano ecumenico. Se si intende riferirsi all'errore storiografico circa il perdono, che fin dall'epoca rinascimentale non ha agevolato certo la corretta discussione ecumenica, basterebbe confrontarsi con la recente e ricca documentazione di insospettabili studiosi che fanno emergere assai onestamente la funzione di questo dicastero, ritenuto la vera "fonte di grazia", privo di qualsivoglia interesse.
L'attenzione al peccato parte da una sensibilità alle esigenze della società moderna o si muove sulla base di riferimenti del tempo passato?
Il riferimento è sempre la violazione dell'alleanza con Dio e con i fratelli e i riflessi sociali del peccato. Se ieri il peccato aveva una dimensione piuttosto individualistica, oggi esso ha una valenza, ha una risonanza, oltre che individuale, soprattutto sociale, a causa del grande fenomeno della globalizzazione. In effetti, l'attenzione al peccato si presenta più urgente oggi di ieri, proprio per i suoi riflessi che sono più ampi e più distruttivi.
La Penitenzieria serve ancora?
Senza dubbio. In un'epoca caratterizzata dall'immagine e dalla pubblicità, in cui tutto diventa pubblico, un dicastero, come la Penitenzieria Apostolica, attento al mondo interiore, nel suo versante più delicato e meno visibile, credo che, nel quadro articolato della vita della Chiesa, sia uno strumento molto prezioso.
Quali questioni attirano maggiormente la vostra attenzione?
Sono quei delitti di cui, per la loro gravità, la Santa Sede si è riservata l'assoluzione: l'assoluzione del proprio complice in peccato contro il VI comandamento (canone 1378); la profanazione sacrilega del Santissimo Sacramento dell'Eucaristia (canone 1367); la violazione diretta del sigillo sacramentale (canone 1388, 1); la dispensa da irregolarità ad recipiendos Ordines contratta per procurato aborto (canone 1041, 4); la dispensa da irregolarità ad exercendos Ordines (canone 1044 1).
Come interpreta la meraviglia che l'opinione pubblica prova di fronte a tante situazioni di scandalo e di peccato nella Chiesa?Non si può sottovalutare l'oggettiva gravità di una serie di fenomeni che sono stati di recente denunciati e che portano con sé i risvolti della fragilità umana e istituzionale della Chiesa; al riguardo, però, non si può non constatare come essa, preoccupata del grave danno infertole, ha reagito e continua a reagire con rigorosi interventi ed iniziative a tutela della immagine della Chiesa stessa e per il bene del popolo di Dio. Tuttavia, occorre però anche denunciare l'enfatizzazione loro data dai mezzi di comunicazione, che, nel quadro di una mondanizzazione, gettano discredito sulla Chiesa.
A volte l'indulgenza della Chiesa e il perdono cristiano non vengono compresi dalla gente. Perché secondo lei?Oggi sembra che la penitenza venga colta come apertura di sé all'altro nella soluzione di problemi che si impongono all'attenzione entro quel raggio sociale, all'interno del quale si esprime la propria esistenza, offrendo il proprio contributo di chiarimento, di sostegno a chi è in difficoltà. La penitenza, dunque, oggi viene colta prevalentemente in dimensione sociale, dal momento che le relazioni sociali si sono indebolite e complicate al tempo stesso a causa della globalizzazione.
Quali sono i nuovi peccati secondo lei?
Vi sono varie aree all'interno delle quali oggi cogliamo atteggiamenti peccaminosi nei riguardi dei diritti individuali e sociali. Innanzitutto l'area della bioetica, all'interno della quale non possiamo non denunciare alcune violazioni dei fondamentali diritti della natura umana, attraverso esperimenti, manipolazioni genetiche, i cui esiti è difficile intravedere e tenere sotto controllo. Un'altra area, propriamente sociale, è l'area della droga, attraverso cui si indebolisce la psiche e si oscura l'intelligenza, lasciando molti giovani al di fuori del circuito ecclesiale. Ancora: l'area delle sperequazioni sociali ed economiche: nelle quali i più poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, alimentando una insostenibile ingiustizia sociale, l'area dell'ecologia, che riveste oggi un rilevante interesse.
Il frequente ricorso alle indulgenze non incentiva una mentalità magica nei confronti della colpa e della pena.Per non cadere in una tale pericolosa e falsata visione, ritengo anzitutto che sia assolutamente necessario conoscere e comprendere la retta dottrina della pratica delle indulgenze, intesa dalla Chiesa come espressione significativa della misericordia di Dio, che viene incontro ai suoi figli per aiutarli a soddisfare le pene dovute ai loro peccati "ma anche e soprattutto per spingerli ad un maggior fervore di carità". La Chiesa è mossa in primo luogo dal desiderio di educare, più che alla ripetizione di formule e di pratiche, allo spirito di preghiera e di penitenza e all'esercizio delle virtù teologali. La riforma del servo di Dio Paolo VI, attuata con la Costituzione apostolica
Indulgentiarum doctrina del 1° gennaio 1967, elimina , in qualche misura, quanto poteva indurre il fedeli verso una mentalità magica. Tale dottrina espone chiaramente i presupposti teologici delle indulgenze, tratta della solidarietà che vige tra gli uomini in Adamo e in Cristo, della comunione dei santi, del tesoro della Chiesa, consistente nelle espiazioni e nei meriti di Cristo, della Beata Vergine Maria e dei santi, che sono messi a disposizione dei fedeli. Le indulgenze, infatti - viene sottolineato - non possono essere acquistate senza una sincera conversione e senza l'unione con Dio, a cui si aggiunge il compimento delle opere prescritte.
Non le sembra che le condizioni per ottenere l'indulgenza siano lievi?Se, insieme alle condizioni solitamente imposte - confessione sacramentale non oltre 15 o 20 giorni prima o dopo, comunione eucaristica e preghiera secondo le intenzioni del Pontefice - si pensa che per acquisire l'indulgenza viene richiesto un grado di purezza eminente e segni di ardente carità, il cui successo rimane difficile alla nostra fragilità, allora riterrei che quanto stabilito non sia proprio da minimizzare.
Ci sono dei peccati che voi non potete assolvere?
La Penitenzieria è la longa manus del Papa nell'esercizio della potestas clavium. Pertanto, per realizzare le funzioni che tiene assegnate nel foro interno, possiede tutte le facoltà necessarie, con la sola eccezione di quelle che il Pontefice abbia dichiarato espressamente al cardinale penitenziere di voler riservare a sé. Può di conseguenza, compiere, nell'ambito del foro interno, tutti gli atti di competenza dei restanti dicasteri della Curia romana.
Sull'aborto si ha la sensazione diffusa che la Chiesa non tenga in considerazione la difficile situazione delle donne.
Mi pare che una siffatta preoccupazione non tenga in alcun conto l'atteggiamento che invece la Chiesa costantemente manifesta proprio nel salvaguardare e tutelare la dignità e i diritti della donna. Molteplici, infatti, sono le iniziative che organismi cattolici e movimenti ecclesiali, con impegno coraggioso ed intelligente, non cessano di promuovere, al fine di contrastare le odierne tendenze culturali e sociali contro la donna, aiutando, in maniera efficace le madri nubili, adoperandosi per l'educazione dei loro bambini messi al mondo per imprevidenza e facilitando perfino l'adozione.
(© L'Osservatore Romano - 9 marzo 2008)
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Mouriño en San Lázaro

La diputada Layda Elena Sansores San Román (desde la curul): Presidenta, quiero manifestarle que no estoy de acuerdo con la orden del día.
Hice una propuesta para que el caso Mouriño o Mouriño-Calderón fuera agendado el día de hoy, porque creo que ya es urgente la creación de la comisión que investigue los contratos con Pemex y con la Comisión Federal de Electricidad.
No es posible que habiendo pasado 17 días que se presentaron estos documentos en la Cámara no se haya tocado el tema más sensible ante la opinión pública, por tanto le exijo que se agende hoy mismo ese tema, y de ser posible inmediatamente que empiece la sesión, lo abordemos.
Yo quisiera tomar…
La Presidenta diputada Ruth Zavaleta Salgado: Compañera diputada, está en el orden del día el punto que usted está tratando. Está en el orden del día y usted sabe que la agenda la aprueba la Junta de Coordinación Política. Nosotros solamente nos sujetamos al orden del día que nos ha enviado la Junta y está agendado el punto que usted nos está pidiendo que se agende.
La diputada Layda Elena Sansores San Román (desde la curul): Presidenta.
La Presidenta diputada Ruth Zavaleta Salgado: Adelante, denle sonido, por favor, a la diputada.
La diputada Layda Elena Sansores San Román (desde la curul): Sí, pues no me dan sonido. Presidenta, usted sabe bien que el agendarlo en el último lugar de estos puntos de acuerdo y esta agenda política equivale a no hablar en este periodo ni en el que viene, al ritmo que se llevan los trabajos de la Cámara, entonces eso es vernos la cara.
No, yo quiero que se agende como un punto prioritario de la Junta de Coordinación porque así debería de serlo. Desde cuándo se ofreció que se iba a integrar una comisión investigadora y no se ha hecho. Y no se ha tocado ni siquiera el tema, no se ha debatido, no se ha discutido en esta tribuna.
La Presidenta diputada Ruth Zavaleta Salgado: Yo estoy de acuerdo con usted, compañera, la integración que entregamos del orden del día es aprobada por la Junta de Coordinación Política y por la Mesa Directiva con base a la normatividad. Cuando ustedes quieren que un tema se adelante para discusión política se hace un acuerdo de la Junta de Coordinación Política, nos envían la solicitud y nosotros la agendamos antes de otros puntos. Yo le sugiero que se pueda revisar con los compañeros líderes parlamentarios que se pueda adelantar la discusión de este punto, toda vez que la normatividad nos exige presentarla en este formato.
Si me permite… Perdón, eso no lo decido yo, lo decidirán ustedes y su líder parlamentario. Así lo inscribió y estuvo de acuerdo en la Junta de Coordinación Política.
La diputada Layda Elena Sansores San Román (desde la curul): En la junta de vicecoordinadores, pedimos que esto fuera agendado como un punto de la Junta de Coordinación y ésta es la hora en que no se ha discutido. Pues entonces yo le pido que me dé la palabra para que yo explique mis puntos de vista en el caso Mouriño-Calderón o llámele "las corruptelas de Calderón-Mouriño" o llámelo como quiera, pero agéndeme.
La Presidenta diputada Ruth Zavaleta Salgado: Sí, compañera, está agendada. Está agendado el punto que la compañera diputada está exigiendo. Adelantar su discusión implica que la Junta de Coordinación lo acuerde. Les recuerdo a los señores diputados que la Mesa Directiva no hace la agenda. Ojalá que ustedes puedan discutirlo y votarlo en mayoría para que nos den esa atribución. A mí me daría más gusto que a todos.
(...) Con respecto al orden del día, compañeros, este pleno podría modificar en cualquier momento el orden del día, incluso a petición de las compañeras en este momento podríamos nosotros incluir el punto que las compañeras diputadas están solicitando. ¿Le dan sonido a la curul de la diputada Layda Sansores, por favor?
La diputada Layda Elena Sansores San Román (desde la curul): Insistimos en que…
La Presidenta diputada Ruth Zavaleta Salgado: Compañeros, bajan la manta. No me disgusta la manta, pero no me dejan ver a la compañera.
La diputada Layda Elena Sansores San Román (desde la curul): Tampoco a nosotros nos deja ver claro cuál es la situación del país y cuál es la gobernabilidad del país cuando se tienen los casos Mouriño. Estamos hablando de honestidad de servidores públicos y del destino de México.
La Presidenta diputada Ruth Zavaleta Salgado: Compañera, no la observo porque está la manta cubriéndome, por eso estoy pidiendo que la bajen un poco.
La diputada Layda Elena Sansores San Román (desde la curul): Insistimos, Presidenta, que nos dé la oportunidad de agendar en primera instancia este tema, es fundamental. Sométalo aquí a votación para que sepamos con quiénes perdemos, quiénes son los que están solapando, porque aquí sospechamos que usted también solapa este tipo de corruptelas.
La Presidenta diputada Ruth Zavaleta Salgado: Compañero Rodríguez Prats, por favor.
El diputado Juan José Rodríguez Prats (desde la curul): Presidenta, verdaderamente me sorprenden estas contradicciones en que incurren muchísimos diputados que son los primeros que han violado las normas fundamentales de esta Cámara y de repente se convierten en rigurosos observadores de lo que disponen estas mismas normas.
Tengo entendido que a la una de la tarde habrá una reunión de la Junta de Coordinación Política y, como usted lo ha sustentado, es el procedimiento que señalan nuestros ordenamientos internos para que de ahí emane el acuerdo y este punto se toque.
De ninguna manera estamos rehuyendo el debate y estamos dispuestos a darlo y estamos preparados para darlo. Inclusive, no voy a entrar en argumentación de fondo, porque me parece que también esto sería una falta de observancia a los ordenamientos internos. Yo le suplico que proceda a desahogar los puntos que están ya aprobados en el orden de día y que la Junta de Coordinación Política en la sesión, a la una de la tarde, nos indique y lo proponga a este pleno, si hay un cambio en el orden del día.
La Presidenta diputada Ruth Zavaleta Salgado: ¿Me permiten los compañeros del pleno? Me voy a tomar dos minutos con los compañeros de la Mesa Directiva. Por favor, si pasan a esta parte alta para consultarles algo a los compañeros de la Mesa Directiva, por favor. Dos minutos solamente. ¿Me permiten dos minutos, por favor? Vamos a consultarles algo a los compañeros de la Mesa Directiva.
(Receso de dos minutos)
La Presidenta diputada Ruth Zavaleta Salgado: Compañeros diputados, vamos a solicitarles, antes de concluir con la votación del orden del día, la siguiente propuesta. Que iniciemos con las comunicaciones, las proposiciones de acuerdo de los órganos de gobierno y los dictámenes a discusión y los dictámenes negativos.
Inmediatamente que terminen los dictámenes, iniciar con el debate político que seguramente la Junta de Coordinación Política ratificará que se lleve a cabo, toda vez que lo han comentado los líderes parlamentarios.
Estaríamos hablando que continuaríamos con el orden del día, a excepción de que se metería ya con un orden el punto de discusión que estaríamos esperando, en primera instancia, que lo entregara la Junta. Pero si lo decide el pleno, ya lo podríamos agendar de esa forma. Si nos permiten que así lo podamos votar.
Segunda, que dentro de las facultades de los diputados está la de presentar los asuntos a discusión a este pleno. Si el grupo parlamentario no presenta como grupo parlamentario lo que está presentando el diputado, no le pueden quitar el derecho a ningún diputado de hacerlo. Tal es el caso que hemos hoy inscrito, un asunto del PRD y dos asuntos de diputados diferentes del PT, porque es su derecho presentar ante la Mesa Directiva los puntos que no hayan sido agendados por su grupo parlamentario.
Con esa facultad nosotros hemos inscrito estos puntos y no es la primera vez que se realiza. Ha habido otros momentos, de otros legisladores, que se han tenido que integrar al orden del día porque el grupo parlamentario avala el planteamiento que hace el diputado a título personal.
Vamos a pasar a votar la propuesta que les hemos realizado de orden el día, por favor.

La frontera colombo-ecuatoriana

Visita a Ecuador
El secretario de la OEA, José Miguel Insulza consideró ''difícil'' que una fuerza multinacional vigile la frontera colombo-ecuatoriana para que no se repitan sucesos como el del 1ro. de marzo y se mostró partidario de que los gobiernos normalicen sus relaciones sin intervención del organismo.
Sobre la propuesta del presidente Rafael Correa, de instalar una fuerza multinacional para vigilar la frontera, Insulza dijo que "si hay dificultades para los ejércitos que patrullan la zona, colombianos y ecuatorianos, yo veo difícil que pueda haber otros que lo vayan a hacer''.
La visita de Insulza responde a la decisión de la OEA de enviar una misión a Ecuador y Colombia para elaborar un informe que podría ser discutido el 17 de marzo, en la próxima reunión de cancilleres en Washington.
El secretario de la OEA y otros delegados del organismo llegaron hasta Angostura, 250 km al noreste de Quito y a dos kilómetros de la frontera con Colombia, acompañados de los ministros ecuatorianos de Seguridad, Gustavo Larrea, y de Defensa, Wellington Sandoval.
La comisión estuvo en el lugar durante 45 minutos.
Por otro lado, militares ecuatorianos encontraron cerca de la frontera con Colombia, un laboratorio de procesamiento de droga.
En declaraciones a la agencia AP, el vocero del ministerio de Defensa, coronel Arturo Vizaíno aseguró que "ayer (lunes) nuestro hombres de la IV División han descubierto las instalaciones de un laboratorio de procesamiento de droga grande, a unos 800 metros de la frontera con Colombia, en el sector denominado Puerto Nuevo (250 kilómetros al este de Quito)".
Por otro lado, el ministro de Gobierno, Fernando Bustamante, en declaraciones a radio Quito, sostuvo que "es necesario el apoyo multilateral para que ambos países, Colombia y Ecuador, garanticen la seguridad de esa frontera, sobre todo en el lado nuestro que somos la parte inocente en esta historia".
"No somos parte de ese conflicto, sin embargo estamos recibiendo incluso bombas, como el resultado de ese conflicto, que no hemos causado, del que no somos parte ... que no tenemos injerencia para resolverlo", señaló.
Añadió que Ecuador opera "con la desventaja de no contar con una enorme ayuda internacional, como es el caso de Colombia, pero a pesar de esa inmensa ayuda internacional, ellos (los colombianos) no pueden (controlar la frontera)".
Ambos países comparten unos 640 kilómetros de frontera, la que a menudo por el lado colombiano está controlada por grupos armados irregulares de guerrilleros, narcotraficantes y paramilitares, que pasan a Ecuador en busca de descanso, abastecimiento o impunidad.
Fuente: AP

Benedicto XVI

Discurso de Benedicto XVI, al recibir en audiencia en el Palacio Apostólico Vaticano a los participantes en la Asamblea Plenaria del Pontificio Consejo de la Cultura.
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Señores cardenales,
queridos hermanos en el episcopado y en el sacerdocio,
estimados señores y señoras:
Me agrada recibiros, con ocasión de la Asamblea Plenaria del Pontificio Consejo de la Cultura, y me alegro del trabajo que desarrolláis y, en particular, del tema elegido para esta sesión: «La Iglesia y el desafío de la secularización». Es ésta una cuestión fundamental para el futuro de la humanidad y de la Iglesia. La secularización, que frecuentemente se transforma en secularismo abandonando la acepción positiva de secularidad, somete a dura prueba la vida cristiana de los fieles y de los pastores, y vosotros, en vuestros trabajos, la habéis interpretado y transformado también en un desafío providencial para proponer respuestas convincentes a los interrogantes y a las esperanzas del hombre, contemporáneo nuestro.
Agradezco al arzobispo monseñor Gianfranco Ravasi, desde hace pocos meses presidente del dicasterio, las cordiales palabras con las que se ha hecho vuestro intérprete y ha explicado la articulación de los trabajos. Os doy también las gracias a todos por el generoso empeño para que la Iglesia se sitúe en diálogo con los movimientos culturales de nuestro tiempo, y se conozca así, cada vez más capilarmente, el interés que la Santa Sede nutre por el gran y variado mundo de la cultura. Hoy más que nunca, de hecho, la apertura recíproca entre las culturas es un terreno privilegiado para el diálogo entre hombres y mujeres comprometidos en la búsqueda de un auténtico humanismo, más allá de las diferencias que les separan. La secularización, que se presenta en las culturas como planteamiento del mundo y de la humanidad sin referencia a la Trascendencia, invade todo aspecto de la vida cotidiana y desarrolla una mentalidad en la que Dios está de hecho ausente, en todo o en parte, de la existencia y de la conciencia humana. Esta secularización no constituye sólo una amenaza externa para los creyentes, sino que se manifiesta ya desde hace tiempo en el seno mismo de la Iglesia. Desnaturaliza desde dentro y en profundidad la fe cristiana y, en consecuencia, el estilo de vida y el comportamiento diario de los creyentes. Ellos viven en el mundo y frecuentemente están marcados, si no condicionados, por la cultura de la imagen que impone modelos e impulsos contradictorios, en la negación práctica de Dios: ya no hay necesidad de Dios, de pensar en Él y de volver a Él. Además, la mentalidad hedonista y consumista predominante favorece, en los fieles como en los pastores, una deriva hacia la superficialidad y un egocentrismo que perjudica la vida eclesial.
La «muerte de Dios» anunciada, en las décadas pasadas, por tantos intelectuales cede el lugar a un culto estéril del individuo. En este contexto cultural existe el riesgo de caer en una atrofia espiritual y en un vacío del corazón, caracterizados a veces por formas sucedáneas de pertenencia religiosa y de vago espiritualismo. Se revela cuánto más urgente reaccionar a tal deriva mediante el recuerdo de los valores elevados de la existencia, que dan sentido a la vida y pueden apagar la inquietud del corazón humano en busca de la felicidad: la dignidad de la persona humana y su libertad, la igualdad entre todos los hombres, el sentido de la vida y de la muerte y de lo que nos espera tras la conclusión de la existencia terrena. En esta perspectiva mi predecesor, el siervo de Dios Juan Pablo II, consciente de los cambios radicales y rápidos de las sociedades, con insistencia llamó la atención sobre la urgencia de encontrar al hombre en el terreno de la cultura para transmitirle el Mensaje evangélico. Precisamente por ello instituyó el Pontificio Consejo de la Cultura, para dar un nuevo impulso a la acción de la Iglesia por hacer que se encuentre el Evangelio con la pluralidad de las culturas en las diversas partes del mundo (cfr. Lettera al Card. Casaroli, en: AAS LXXIV, 6, pp. 683-688). La sensibilidad intelectual y la caridad pastoral del Papa Juan Pablo II le impulsaron a poner de relieve el hecho de que la revolución industrial y los descubrimientos científicos permitieron responder a preguntas que antes se habían satisfecho parcialmente sólo desde la religión. La consecuencia ha sido que el hombre contemporáneo tiene con frecuencia la impresión de no necesitar ya a nadie para comprender, explicar y dominar el universo; se siente el centro de todo, la medida de todo.
Más recientemente la globalización, a través de las nuevas tecnologías de la información, no raramente ha tenido como resultado también la difusión en todas las culturas de muchos componentes materialistas e individualistas de Occidente. Cada vez más la fórmula «Etsi Deus non daretur» [«Como si Dios no existiera». Ndt] se convierte en un modo de vivir que trae origen de una especie de «soberbia» de la razón -realidad creada y amada por Dios- que se considera autosuficiente y se cierra a la contemplación y a la búsqueda de una Verdad que la supera. La luz de la razón, exaltada, pero en realidad empobrecida, por la Ilustración, reemplaza radicalmente la luz de la fe, la luz de Dios (cfr. Benedicto XVI, Alocución para el encuentro con la Universidad de Roma «La Sapienza», 17 enero 2008). Por ello son grandes los desafíos que debe afrontar la misión de la Iglesia en este ámbito. Cuánto más importante se revela, por eso, el compromiso del Pontificio Consejo de la Cultura por un diálogo fecundo entre ciencia y fe. Es un afrontamiento muy esperado por la Iglesia, pero también por la comunidad científica, y os aliento a proseguirlo. En él la fe supone la razón y la perfecciona, y la razón, iluminada por la fe, encuentra la fuerza para elevarse en el conocimiento de Dios y de las realidades espirituales. En este sentido la secularización no favorece el objetivo último de la ciencia que es al servicio del hombre, «imago Dei» [«imagen de Dios». Ndt]. Que continúe este diálogo en la distinción de las características específicas de la ciencia y de la fe. En efecto, cada una tiene métodos propios, ámbitos, objetos de investigación, finalidades y límites, y debe respetar y reconocer a la otra su legítima posibilidad de ejercicio autónomo según los propios principios (cfr. Gaudium et spes, 36); ambas están llamadas a servir al hombre y a la humanidad, favoreciendo el desarrollo y el crecimiento integral de todos y cada uno.
Exhorto sobre todo a los pastores del rebaño de Dios a una misión incansable y generosa para afrontar, en el terreno del diálogo y del encuentro con las culturas, del anuncio del Evangelio y del testimonio, el preocupante fenómeno de la secularización, que debilita a la persona y la obstaculiza en su anhelo innato hacia la Verdad completa. Que puedan así los discípulos de Cristo, gracias al servicio prestado en particular por vuestro dicasterio, seguir anunciando a Cristo en el corazón de las culturas, porque Él es la luz que ilumina la razón, al hombre y el mundo. Pongámonos también nosotros ante la admonición dirigida al ángel de la Iglesia de Éfeso: «Conozco tu conducta: tus fatigas y tu paciencia... Pero tengo contra ti que has perdido tu amor de antes» (Ap 2,2.4). Hagamos nuestro el grito del Espíritu y de la Iglesia: «¡Ven!» (Ap 22,17), y dejemos que nos invada el corazón la respuesta del Señor: «¡Sí, vengo pronto!» (Ap 22,20). Él es nuestra esperanza, la luz para nuestro camino, la fuerza para anunciar la salvación con valentía apostólica llegando hasta el corazón de todas las culturas. ¡Que Dios os asista en el cumplimiento de vuestra ardua pero entusiasmante misión! Confiando a María, Madre de la Iglesia y Estrella de la Nueva Evangelización, el futuro del Pontificio Consejo de la Cultura y el de todos sus miembros, os imparto de todo corazón la Bendición Apostólica.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana
Traducción del original italiano por Marta Lago]
Agencia Zenit

Diversidad cultural

¿Qué implica aceptar la diversidad cultural/Micaela Vancea, investigadora de Ciencia Política, Universitat Pompeu Fabra
Publicado en LA VANGUARDIA, 08/03/2006;
La diversidad cultural es un hecho cotidiano de nuestro mundo que cuestiona tanto la universalidad de los derechos como las políticas tradicionales de integración nacional. Los intentos de integrar los grupos minoritarios en un modelo cultural nacional mediante estrategias de asimilación no suelen tener en cuenta el respeto por las diferentes identidades, los derechos de preservación y desarrollo cultural. Por consiguiente, muy a menudo, dichas políticas nos legan resultados ineficientes y escenarios no deseados. No obstante, el grueso de las políticas de inmigración de los países occidentales se fundamenta en el conocido melting-pot. Es decir, están diseñadas con el fin de integrar las minorías en el modelo nacional-cultural dominante en vez de tratar de acomodar la diversidad cultural existente.
El liberalismo político tradicional, centrado en la protección de los derechos individuales y en una aceptación del pluralismo en la esfera privada, considera los derechos culturales como algo superfluo. Históricamente, el liberalismo ha definido los derechos como posesiones individuales y ha pensado en su universalidad como el garante de la igualdad formal y de la no discriminación. Así, los derechos de grupo se sitúan fuera de dicho paradigma moral. ¿Pero es lícito plantear la universalidad de los derechos humanos sin tener en cuenta las demandas de las minorías étnicas y culturales?
En las últimas decadas, la filosofía política contemporánea ha tratado de dar respuesta a esta cuestión. Autores como Will Kymlicka, Charles Taylor o John Gray han renovado el ideario político liberal tradicional inaugurando una nueva línea de pensamiento acorde con los nuevos tiempos. Esta nueva tendencia reconoce y se articula sobre el pluralismo cultural de las sociedades actuales. Su objetivo principal es la promoción, a través de políticas multiculturales, de una identidad nacional de carácter plural basada en la dignidad individual y el respeto de las minorías. Pero la aceptación de la cultura como elemento unificador y, al mismo tiempo, diferenciador genera varias preguntas. ¿Hasta qué punto se pueden reconocer, legitimar y dar cabida, en el contexto de los estados nación, a las diferencias culturales y preservar, a la vez, la cohesión social?
El liberalismo de nuevo cuño debe todavía resolver dos aspectos importantes. Como muestra la mayoría de los estudios, la experiencia nos dice que las medidas de acomodación cultural, como, por ejemplo, la posibilidad de utilizar tu propia lengua materna a todos los niveles, a tener tus propias instituciones educativas y culturales, suelen conducir muy a menudo al aislamiento territorial y social de los diferentes grupos culturales. Al mismo tiempo, un reconocimiento público de la diferencia se vuelve fútil sin una adecuada redistribución de recursos. El reparto desigual de recursos materiales, en una sociedad, determina que las decisiones de interés del grupo minoritario sean siempre tomadas por el grupo cultural dominante.
Para lograr una carta de derechos humanos culturalmente no discriminatoria, es crucial el respeto a las diversas tradiciones y valores culturales que conviven en el mundo. Los derechos humanos deben representar un acuerdo entre las diferentes culturas, un mínimo común denominador, que puede conseguirse abriendo espacios de diálogo, esferas de deliberación pública, tanto en el ámbito local nacional como en el transnacional. Aquellos que, de entrada, ven una incompatibilidad entre los derechos individuales y los derechos de grupo deberían primero reconocer y afrontar el hecho de la diversidad cultural del mundo, entender y aceptar su heterogeneidad, y sólo después tratar de dar respuesta a los problemas que puede conllevar. Los derechos de grupo representan una condición sine qua non del respeto a la diferencia, y las políticas de acomodación cultural y igualdad socioeconómica son su única garantía.

Pensamiento en bloque

Pensamiento en bloque/Charles Taylor, profesor emérito de Filosofía en la McGill University, Montreal. Su libro más reciente es La era secular © Project Syndicate/ Institute for Human Sciences, 2007.
Publicado en LA VANGUARDIA, 18/09/2007;
Traducción: Claudia Martínez
Hoy el multiculturalismo se ha vuelto un término sospechoso en casi todas partes del mundo, especialmente en Europa. La gente dice cosas del tipo: “Yo antes estaba a favor de la apertura y la tolerancia de la diferencia, pero ahora veo adónde conduce”.
Pero ¿adónde conduce?
Casi todas las razones para el aparente descrédito de la tolerancia tienen que ver con el islam. Incluso aspiraciones como la de las estudiantes que quieren cubrirse la cabeza con un pañuelo en clase de repente cobran una inmensa relevancia política y se abordan como cuestiones que deben resolverse al más alto nivel de gobierno. La gente -y los líderes electos- suele tener la sensación de que este tipo de propuestas aparentemente inocentes son, en realidad, parte de una agenda oculta ominosa.
Esa agenda es el islam que, según imaginan muchos, incluye todas las cosas terribles sobre las que leemos en la prensa a diario: la lapidación de las mujeres adúlteras según la charia en el norte de Nigeria, la amputación de las manos de los ladrones en Arabia Saudí, los crímenes de honor de las mujeres que se niegan a los matrimonios por acuerdo en Pakistán (o incluso en ciudades del norte de Inglaterra como Bradford y Manchester), la voluntad de justificar los atentados suicidas. Si uno responde que las jovencitas que quieren usar pañuelos en la cabeza en la escuela no viven en Nigeria o Arabia Saudí, y casi con seguridad no comparten las opiniones wahabíes extremas en esos países, se topará con una mirada de pena casi indulgente, una mirada del tipo reservado a los irremediablemente ingenuos. O le contarán historias sobre cómo imanes saudíes les están torciendo el brazo a las jóvenes, convirtiéndolas en involuntarios bueyes de cabestrillo para el islam.
De hecho, hoy resulta prácticamente imposible hablar sobre los pañuelos en la cabeza como una cuestión por derecho propio. Toda la evidencia sociológica sobre los motivos de las jóvenes, en realidad muy variados, es descartada como irrelevante. Lo único que importa es la amenaza planteada por el islam. Éste es un ejemplo clásico de lo que yo llamo pensamiento en bloque,que parece haber dado pasos agigantados en Europa en los últimos años. El libro reciente de John Bowen Why the French don´t like headscarves (por qué a los franceses no les gustan los pañuelos en la cabeza) documenta este cambio.
El pensamiento en bloque funde una realidad variada en una unidad indisoluble y lo hace de dos maneras. Primero, las diferentes manifestaciones de la devoción o cultura islámica son consideradas modos alternativos de expresar el mismo significado medular. Segundo, se considera que todos los musulmanes defienden estos significados medulares. La posibilidad de que una chica que usa un pañuelo en la cabeza pueda en realidad estar rebelándose contra sus padres y su tipo de islam, y de que otras pudieran ser profundamente devotas y, a la vez, sentir una absoluta repugnancia por la discriminación por sexo o la violencia, se pierde de vista.
El pensamiento en bloque es un fenómeno antiquísimo, y todos lo practicamos en alguna medida. Pero si bien en otra época podríamos haber sido indulgentes sobre sus consecuencias, hoy tiene un potencial explosivo, porque las personas que piensan de esta manera son los principales candidatos a ver el mundo en términos de la teoría de Samuel Huntington del choque de civilizaciones.
Peor aún, la manera en que luego actúa esta gente tiende a acercarnos más al escenario monstruoso de Huntington. Al tratar a todos los segmentos variados del islam como parte de una amenaza unificada a Occidente, hacen que a los musulmanes les resulte más difícil pararse y criticar a sus propios pensadores en bloque -gente como Osama bin Laden, que está construyendo su propio enemigo unificado, compuesto por cristianos y judíos-.
Los pensadores en bloque de cada lado brindan ayuda y alivio a los pensadores en bloque del otro lado, y con cada intercambio nos acercan a un abismo. Pero ¿cómo podemos frenar esta locura? El pensamiento en bloque persiste porque sus críticos en ambos bandos son desconocidos para los del bando contrario. De hecho, cuántas veces un crítico del pensamiento en bloque europeo se topa con este tipo de respuesta: “Pero ¿dónde están los musulmanes que critican el islamismo extremo?”.
Por supuesto, es poco probable que los encontremos en los salones de los periodistas parisinos o en la clase política profesional europea más amplia. Pero explicar esto a los pensadores en bloque nunca tendrá el impacto de una conexión real con el discurso multifacético que tiene lugar en el otro lado.
La verdadera pregunta, entonces, es la siguiente: ¿dónde están las figuras de transición que puedan ofrecer esa conexión tan urgente y necesaria?

Nuevas sendas de la seculariacón

Nuevas sendas de la secularización/Michel Wieviorka, profesor de la Escuela de Altos Estudios en Ciencias Sociales de París.
Publicado en LA VANGUARDIA, 14/01/2008;
Traducción: José María Puig de la Bellacasa.
A partir de la Ilustración, en el siglo XVIII, un interrogante se impuso en Europa: ¿no hemos entrado en la era de la secularización? En un primer momento podía tratarse -como quería Voltaire- de “aplastar al infame”, de acabar con la religión. Un combate que proseguiría a lo largo del siglo XIX y buena parte del XX: ¿no es la religión, como decía Karl Marx, el “opio del pueblo”? Cabe detectar aquí una primera concepción de la secularización en la idea del fomento y la aceleración de un declive de la religión, que debe combatirse por medio de la razón y denunciarse como fuente de alienación; a menudo, en calidad de la más segura aliada del poder, que debe eliminarse como factor de dominio en cuyo seno se entremezclan inevitablemente lo religioso y lo político. Tal concepción se compaginaba con un evolucionismo sumario que dice que el progreso es la marcha hacia delante de la modernidad.
Modernidad que, a su vez, se concibe como realidad que ha de mermar inevitablemente tradiciones y particularismos; entre ellos, la religión.
Sin embargo, y desde los albores, se difundió también otra idea de la secularización, la que no considera el declive de la religión en provecho de la herencia racional de la Ilustración o de la idea de progreso, sino la referente a un proceso de disociación en virtud del cual se escinde de lo político y es expulsada del espacio público sin que por ello se combatan las convicciones, la fe o Dios ni se coarten las posibilidades de practicar la fe propia: en suma, se trata de garantizar la continuidad del viejo adagio que dice que debe darse al césar lo que es del césar y a Dios lo que es de Dios.
La primera de estas convicciones halló su expresión política más cumplida en los países comunistas, que han combatido la institución eclesial con mayor o menor ardor y celo. La segunda, bajo diversas variantes, caracteriza más bien a las democracias. Y en ambos casos debe subrayarse un factor común: la secularización significa que Dios no cuenta con lugar propio en el ámbito público.
El término en cuestión remite a la idea de un combate e, igualmente, a una constatación empírica: en efecto, los progresos de la secularización se combinan o con un declive puro y simple de la fe y la práctica religiosa o con una mengua de su ascendiente sobre la vida de las personas en tanto que en el pasado y en el caso de las sociedades no modernas el conjunto de la vida en todas sus dimensiones - incluidas las políticas- sólo tenía sentido a la luz de Dios o de la referencia a un elemento de garantía metasocial.
Sin embargo, tal constatación no basta e incluso puede resultar objetable. Porque la religión no sólo suele resistir los embates sino que incluso se afianza, también en el seno de las democracias. Así sucede en el caso de numerosas iglesias protestantes, por ejemplo en Estados Unidos o Latinoamérica. El catolicismo es tal vez la religión que muestra mayor retroceso, sobre todo en las regiones más desarrolladas, y cabe sostener la hipótesis de que sus dificultades actuales guardan relación con la importancia que concede - más que cualquier otra religión contemporánea- al mecanismo institucional jerárquico, de corte piramidal, que es el suyo propio y que culmina en el Vaticano con la figura del Papa. No obstante, aun en tal caso cabe constatar que el declive, tan espectacular en varios países de Europa durante los años cincuenta, sesenta o setenta del siglo XX, se ve frenado en cierto modo.
Es menester, por tanto, preguntarse: ¿puede continuar hablándose aún de secularización si la religión no sólo no retrocede sino que incluso encuentra -aun en los países más modernos- las sendas de un renovado impulso y (como ha llegado a decirse) de un “retorno de Dios”? De hecho, la secularización sigue generándose aunque bajo formas y contenidos renovados. No estriba ya únicamente en la pura y simple desaparición o atenuación del ascendiente de lo religioso sobre la vida de las sociedades o sobre su ámbito público: se convierte en un ingrediente de la vida de las personas, que no forzosamente abandonan la fe y que hallan en ella (al menos en ciertos casos) la fuente del sentido general de su existencia pero que, como si de un bricolaje se tratara, combinan con sus convicciones y prácticas otros elementos y significados que pertenecen en mayor medida a la esfera del individualismo moderno. Como indica el filósofo Charles Taylor en su último libro Una era secular susceptibles de forzar la retirada o el retroceso de lo religioso-, sino como un fenómeno según el cual los individuos adoptan decisiones complejas que les permiten conferir un significado superior a su existencia a través de la religión sin, por eso, dejar de participar plenamente en la vida moderna.
En tal perspectiva, la secularización resulta de la agregación de decisiones individuales y personales en las que sujetos particulares pueden - si así lo quieren- tanto comprometerse como desvincularse de una fe, creencia o religión; significa que el recurso a Dios o a una trascendencia (sea cual fuere) ya no se ve impuesto por la sociedad -como imperativo absoluto- sino que es una elección, una decisión que nunca es irrevocable y que se efectúa entre otras posibilidades. Dicho de otra forma: lo propio de las sociedades modernas y democráticas es dejar a cada individuo la posibilidad al menos teórica de hacerse a sí mismo, de controlar la propia experiencia, de comprometerse en procesos de subjetivación donde lo religioso es una posibilidad pero entre otras alternativas. A partir de ahí, la secularización se define no como lo contrario de lo religioso, sino como la posibilidad según cada individuo tanto de elegirla como de abandonarla.
De este modo se presenta a nuestros ojos una posible imagen distinta de la modernidad: no - o no sólo- el triunfo de la razón sobre las tradiciones; no - o no sólo- el confinamiento de la religión al espacio limitado de la vida privada sino también - y de modo creciente- la articulación (indudablemente difícil) de los valores universales (el derecho, la razón) y de las identidades particulares, especialmente religiosas. Y esta articulación no comporta o no sólo comporta grandes opciones políticas, sino que también experimenta procesos de subjetivación donde cada cual, con plena responsabilidad, actúa por una parte de modo más o menos racional (en función de las obligaciones o imposiciones que pesan sobre él) y por otra confiere un sentido a su existencia merced a sus opciones religiosas y otras.
La secularización, hoy, no es ni el abandono ni el retraimiento de lo religioso: significa que este es objeto de opciones notablemente subjetivas y que no se impone a los individuos.

Iraq

Iraq. año cinco/Tahar ben Jelloun, escritor.
Publicado en LA VANGUARDIA, 09/03/2008;
Si hubiera una justicia - divina, humana o satánica-, quienes han reducido un país como Iraq a un inmenso caos se sentarían hoy ante un tribunal penal internacional para responder de sus crímenes. Sin embargo, el equipo que lidera la mayor potencia del mundo prosigue impunemente su tarea de destrucción con toda tranquilidad.
Hoy día, la vida humana en Iraq no vale nada. Se ha abierto paso la barbarie como forma de supervivencia, se han destruido la mayoría de las infraestructuras; en suma, se ha asesinado a un país y se ha entregado a un pueblo en manos de asesinos y ladrones. He aquí el resultado de una invasión estadounidense decidida por un hombre y un equipo impulsados por un racismo profundo y un fanatismo religioso bajo los que buscan cobijo y por intereses que han procedido a maquillar para presentarlos bajo capa de democracia.
Todos hemos visto esas imágenes de Bagdad, esa ciudad de historia tan rica y hermosa. Hoy es un lugar de combate donde la gente muere sin saber por qué y otros luchan como mercenarios sin saber a quién aprovecha su acción. Milicias de toda laya matan día tras otro. Sus ataques se ceban sobre todo en mujeres y niños; prefieren alistar a sus jóvenes en combates inciertos… Es una estrategia esclava del absurdo y el sinsentido. La vida ya no guarda allí parecido alguno con nada… Los que pueden huyen, otros subsisten como pueden y unos pocos redoblan si cabe su ferocidad en una guerra no deseada y cuya necesidad o fin no aciertan siquiera a vislumbrar.
El país se halla desestructurado. La sociedad está hecha trizas. Las creencias religiosas sirven a modo de punta de lanza. Los chiíes se hallan en el poder, situados en él por los estadounidenses. Los suníes luchan contra ellos. Los unos cuentan con el apoyo de Irán que desempeña un papel tan importante como el de Estados Unidos
(aunque no siempre patente), los otros son títeres de Al Qaeda, movimiento que no tiene rival a la hora de aniquilar sistemáticamente a una población desprotegida. Y, por añadidura, otros suníes que se autocalifican de resistentes colocan bombas en barrios populares para provocar el mayor número posible de víctimas.
El ejército estadounidense, el oficial y el otro (el privado, que emplea métodos más expeditivos) se atrincheran en un ámbito superprotegido: ya no saben cómo desembarazarse de tal situación. Casi ningún periodista extranjero se aventura en el país. Los secuestros y ejecuciones de varios periodistas han acabado por disuadir de toda posible visita salvo disfrazándose de habitante del país y sin pasar, naturalmente, por periodista. Dieciocho rehenes siguen en manos de asesinos.
Es un cuadro ideal para que la mafia prospere y haga negocios. De hecho ha aparecido y siembra el terror con las mismas credenciales que las de los ejércitos extranjeros que han ido a Iraq a “aportar la democracia y el bienestar al país”. En esta guerra en la que la religión desempeña el papel más detestable que imaginarse pueda, donde la religión escinde y divide sin tregua y arma a unos contra otros, el ser humano ya no sabe a qué Dios dirigirse. Muchos cristianos iraquíes han sido masacrados. No se ha hablado de ello. Quienes han podido se han exilado (son una minoría, a decir verdad, en este juego mortal). Es la hora del fanatismo y la sinrazón, del fanatismo sin matiz ni gradación.
Desdichados comerciantes cuelgan en sus escaparates retratos de líderes religiosos en la confianza de obtener su protección. El propietario de una tienda ha llegado a confesar que ha perdido la fe, que ya no cree en nada y que sólo confía en poder abandonar un día este infierno. Pero los señores de la guerra siguen tirando de los hilos y no dejan de enriquecerse. Una vieja historia. Por lo demás, el ser humano no tiene por qué cambiar. Sigue siendo un lobo, un ave rapaz. Un ser que fácilmente se desgaja de su propia humanidad.
Descubrí este país en 1975. Sadam aún no había alcanzado la presidencia iraquí. Lo recuerdo como un país volcado todo él en la cultura. Se alentaba a los artistas y los escritores no sufrían censura alguna. Contaba con una universidad floreciente. El Estado preservaba una buena porción del dinero del petróleo para el arte y la filosofía. Era cuando Bagdad aspiraba a ocupar el lugar de El Cairo, capital de la cultura árabe. No era una democracia a la occidental, pero el partido Baas apostaba por la cultura y respetaba a los creadores.
Luego Sadam accedió a la cúpula del poder y el infortunio se apoderó del país. Actualmente, la desgracia se llama Bush. Sadam comenzó la destrucción de Iraq, Bush se esfuerza por coronar la tarea en las peores condiciones.
¿Cuándo y quién hará justicia al pueblo iraquí?

Las FARC: reportaje de Maite Rico


Reportaje: Colombia acorrala a la guerrilla
200 combatientes abandonan cada mes las FARC, que vive su peor momento -
Los expertos aseguran que la organización rebelde empieza a desintegrarse
MAITE RICO (ENVIADA ESPECIAL) -
El País, Bogotá - 11/03/2008;
Nadie ha reclamado aún el cadáver de Iván Ríos, uno de los jefes de la guerrilla colombiana. Pablo Montoya, alias Rojas, el lugarteniente que le pegó el tiro en la frente y le cortó la mano derecha para entregársela al Ejército, asegura que no va a ser el último dirigente de las Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (FARC) abatido por sus subalternos. "Ha cambiado la historia. Van a caer", dice. El despotismo de Ríos, el cerco militar al Frente 47 y la perspectiva de una recompensa determinaron el brusco desenlace. Pero otros muchos combatientes están abandonando las filas de la guerrilla de forma menos expeditiva.
Cada mes, unos 200 hombres se acogen silenciosamente a los programas de reinserción creados por el Gobierno. Muchos fueron reclutados siendo casi niños, y están cansados de las privaciones, los malos tratos y la falta de horizontes. En total, 2.500 guerrilleros (cada vez más mandos medios entre ellos) se han incorporado hasta ahora a la vida civil.
Acorralada militarmente y dispersa, las FARC, dicen los expertos, empieza a desintegrarse.
El pasado 1 de marzo, el Ejército colombiano "daba de baja" en suelo ecuatoriano a Raúl Reyes, el número dos de la guerrilla. Con la muerte de Iván Rojas, las FARC han perdido en una semana a dos de los siete miembros del secretariado, el máximo órgano. Varios integrantes de su Estado Mayor -como Popeye, Jota Jota, el Negro Acacio o Martín Caballero- han caído en los últimos meses. La infiltración y la intercepción de las comunicaciones por parte de la inteligencia colombiana están quebrando la logística del grupo armado.
"Las FARC son hoy bandas itinerantes y dispersas. Tienen serios problemas de comando y control. El jefe mítico es Tirofijo, pero no hay mando unificado, que es lo que intentaba reconstruir Raúl Reyes. Hay muchas rivalidades entre ellos", señala un alto funcionario del Gobierno.
Cuando el presidente, Álvaro Uribe, llegó al poder, en 2002, la vieja guerrilla marxista, convertida con los años en un cartel de droga, estaba en su apogeo. Se habían hecho fuertes en el Caguán, una región del tamaño de Suiza que el ex presidente Andrés Pastrana (1998-2002) mantuvo desmilitarizada tres años para lograr un acuerdo de paz que nunca llegó. En el Caguán, las FARC recibían armas y mantenían a sus secuestrados. Los colombianos recuerdan con pavor los años noventa. El país estaba a su merced. Más de 300 alcaldías estaban cerradas. Los secuestros masivos en las carreteras (las "pescas milagrosas") eran retransmitidos por televisión. Bogotá, cercada por varios frentes, sufría el embate de brutales atentados con bomba. La guerrilla contaba entonces con 19.000 guerrilleros repartidos en 70 frentes.
Hoy, la situación ha dado un vuelco. Los efectivos de las FARC se han reducido a la mitad. Los frentes no pasan de 45, algunos con un puñado de hombres. En seis años, los secuestros anuales han bajado de 2.883 a poco más de 500. Los atentados, de 1.645 a 328. Las carreteras principales son de nuevo transitables. El Estado ha retomado el control del territorio, que era el principal objetivo de la Política de Seguridad Democrática diseñada por Uribe. Y lo ha hecho a base de más presencia de las fuerzas de seguridad y de más acción social.
"Uribe ha puesto a las FARC a la defensiva", asegura un alto funcionario de la Organización de Estados Americanos (OEA) en Colombia. "Nunca han estado tan mal desde el punto de vista militar en sus 44 años. Pero ojo con el triunfalismo. La selva y la montaña son refugios impresionantes, y ellos tienen una gran capacidad de adaptación".
Por su componente mafioso y el poder del narcotráfico, las FARC no son una guerrilla convencional. Consciente de ello, el objetivo del Gobierno no es tanto liquidar a las FARC, tarea harto improbable, como forzarla a negociar sin condiciones. Pero el apoyo logístico y político prestado a la guerrilla por Ecuador y Venezuela (que ha enviado armas y dinero) puede dificultar el empeño de Colombia de poner fin a casi cuatro décadas de horror.
Foto: Revista Semana

La renuncia de Mouriño

Columna Itinerario Político/Ricardo Alemán
El Universal, 11 de marzo de 2008;
En el camino
En un primer momento, el señor Juan Camilo Mouriño dijo que no debatiría con sus impugnadores —a propósito de las acusaciones de tráfico de influencias en su contra—, y muy pronto debió tragar sapos y serpientes, ya que debió salir a explicar de nueva cuenta su proceder en cargos previos. Ahí dijo que no renunciaría a la Secretaría de Gobernación. Hoy podría ocurrir un nuevo recule del señor Mouriño. ¿Por qué?
Porque el secretario de Gobernación podría presentar su renuncia en cualquier momento. Y no, no se trata de una revelación anticipada y menos de eso que otros llaman “información confidencial”. Lo que pasa es que el primer círculo de la casa presidencial evaluó el costo que está pagando el presidente Calderón a causa del “escándalo Mouriño”, y son muchos los indicios de que siempre sí podría haber un cambio de estrategia.
Por cierto, al entonces presidente Zedillo le “reventaron” dos secretarios de Gobernación. Y en los dos casos tuvo que ver Felipe Calderón, como secretario general y luego como dirigente del PAN. ¿No aprendió nada? Al tiempo. aleman2@prodigy.net.mx

El futuro de Mouriño

¿Qué hará Calderón con Mouriño?/Leo Zuckermann
Publicado en Excelsior, 11/03/2008;
Finalmente el secretario de Gobernación admitió que, ya como servidor público, había firmado contratos de la empresa de su familia con Pemex. A pregunta expresa de Joaquín López-Dóriga, Juan Camilo Mouriño aseguró que la firma de estos contratos era legal y ética. Es posible que el secretario tenga razón. Quizá sea legal y ético. Pero lo cierto es que este escándalo es un desastre político para el gobierno.
Mouriño argumenta que no violó ninguna
ley. Que no ha participado “en ningún momento de mi vida pública en los órganos de decisión de Pemex para el otorgamiento de contratos, ni éste ni ningún otro”. Como siempre ocurre con los asuntos legales, vendrá una feria de interpretaciones jurídicas para aducir si hubo o no violación a la ley. Por el momento, démosle el beneficio de la duda al secretario de Gobernación.
En cuanto al asunto ético, Mouriño argumenta que hay que ver la historia completa de la empresa familiar. “Esta no es una empresa que se hizo al amparo del poder o que ha crecido al amparo del poder”. Afirma que cuando comenzó la relación comercial de la empresa con Pemex tenían diez pipas a su servicio. Veintitrés años después sólo tienen ocho: “No hay ninguna actuación de mi parte que haya favorecido a la empresa como dolosamente se ha señalado”. Dice, además, que cuando decidió dedicarse a la política, se deshizo de las acciones de la empresa y dejó de ser su apoderado legal. Pero esto “tomó tiempo”.
Cuando hablamos de ética, hablamos de la moral, es decir de valores subjetivos que hacen que las acciones de una persona sean vistas como bondadosas o maliciosas. Cada persona, de acuerdo con sus particulares valores, hará un juicio de si las firmas de Mouriño fueron o no éticas. Una vez más, por el momento, démosle el beneficio de la duda al secretario.
Pero donde no podemos darle el beneficio de la duda a Mouriño es que sus firmas se han convertido en un dolor de cabeza para el gobierno de Calderón. Los contratos de la empresa familiar son la prueba perfecta para la narrativa de la izquierda mexicana en contra de la reforma energética y, en general, del Presidente: “El espurio y su grupo de pirruris panistas nos robaron la presidencia en contubernio con el PRI y los grandes intereses económicos del empresariado. Ahora esta alianza quiere apropiarse del petróleo que le pertenece al pueblo. Por eso van a privatizar a Pemex. Y ahí están los contratos de la empresa de Mouriño que revelan sus verdaderas intenciones”.
Los contratos son perfectos para esta narrativa. La duda ha caído sobre Mouriño. Y el escándalo ha complicado la posibilidad de una reforma energética. ¿Qué hará el Presidente al respecto?
Calderón tiene dos opciones. La primera es hundir los costos de haber nombrado a Mouriño como secretario de Gobernación. Ya no gastar más de su capital político para rescatarlo y dejar que López Obrador le gane esta partida con la eventual salida del titular de Gobernación. La segunda alternativa es gastar fichas para apuntalar a su hombre fuerte en Bucareli lo cual implica pedir favores a los medios de comunicación (para que ya no crezca tanto el escándalo) y, sobre todo, al PRI para que no se una al PRD en cuestionar al funcionario.
Después de un año entero a la deriva, la izquierda por fin encontró un flanco débil al gobierno de Calderón y, previsiblemente, van a seguir torpedeándolo. En 2005, Fox tuvo la sapiencia de hundir los costos del desafuero, dándole una importante victoria a López Obrador y dejando la lucha final para un mejor día. ¿Hará lo mismo Calderón o escalará la confrontación a fin de rescatar a su álter ego?

Usan las FARC al DF: DEA

Sostiene que aquí se refugian, recaudan fondos ilegales y realizan propaganda
Usan las FARC al DF de base financiera: DEA
Un reporte de las autoridades estadunidenses revela que la Ciudad de México es refugio seguro de la organización rebelde para sus actos de propaganda y para allegarse de adeptos a su lucha.
La presencia de miembros de las Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia en México ha sido alertada desde 1999 por el gobierno de Estados Unidos; sin embargo, de 2004 a 2007 se incrementaron los vínculos de esta organización con narcotraficantes y grupos subversivos mexicanos.
Milenio Diario, 11/3/2008;
Omar Sánchez de Tagle, reportero
En un reporte elaborado por la Drug Enforcement Administration (DEA) y el Congreso estadunidense, se alerta que en los recientes años los miembros de las FARC han encontrado “en la Ciudad de México una base para sus actividades de recaudación de fondos y un refugio seguro para llevar a cabo actos de propaganda”.
El documento explica cómo es que desde hace varios años los miembros de las FARC no sólo buscan hacer negocios y obtener mayores recursos financieros, sino también cómo hacerse de adeptos a su movimiento.
De hecho, el reporte del Congreso estadunidense explica que, divididos en dos especies de células, los miembros del grupo rebelde tienen contacto con universidades, foros de defensa de derechos humanos, estudiantes, profesores y líderes de grupos subversivos para contar con su apoyo y conformar una amplia red de información y logística de propaganda.
De acuerdo con el informe, México ha servido por varios años como asilo a los refugiados de diversas dictaduras de extrema derecha, lo que ha ocasionado que en los últimos años se observe a nuestro país como un territorio “hospitalario para las organizaciones radicales de la izquierda” y para la incursión de grupos subversivos.
Por ejemplo, dice el reporte, “México también ha servido de anfitrión a lo largo de los años para las conversaciones de paz entre los diversos grupos de la guerrilla de América Latina y sus gobiernos”.
A las Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia se les permitió, en 2000, tener una oficina en México, comandada por Marco León Calarca y Olga Marín, quienes durante varios años, detalla el informe estadunidense, lograron tener contacto con estudiantes de la UNAM y de diversos grupos subversivos, esto hasta antes de ser expulsados.
“La oficina de las FARC en la Ciudad de México, que contó con personal colombiano y militantes como Marco León Calarca y Olga Marín, fue aceptada por los gobiernos de México y de Colombia como un punto de contacto útil a los efectos de participar en las conversaciones de paz, lo anterior al menos hasta su expulsión del país”.
La presencia de estos personajes detalla el documento, permitió que las FARC cuenten ahora con presencia en al menos 11 estados del país como Jalisco, Guerrero, Oaxaca, Chiapas, Morelos y la Ciudad de México, entre otros. En estas entidades ha logrado conformar diversas redes de apoyo y de foros de propaganda.
El otro grupo de las FARC destacado en México tiene como misión conseguir mayores recursos para el movimiento y para ello establecen contacto con los cárteles de la droga mexicanos.
El reporte refiere que en un principio, los miembros de las FARC mantenían fuertes vínculos con el cártel de los hermanos Arellano Félix. Sin embargo, el debilitamiento de la organización delictiva provocó que desde 2004 establecieran contacto con la ahora denominada Federación, encabezada por Joaquín El Chapo Guzmán.
Lo que significa que en los últimos cuatro años, las Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia han sido el enlace entre los cárteles colombianos y el también llamado cártel de Sinaloa.
De acuerdo con la DEA, los grupos intercambian drogas, como cocaína, por armas o dinero que es enviado a Colombia mediante diversos métodos, que incluyen el traslado hormiga, el uso de instituciones financieras e incluso la Internet.
“Las FARC sigue usando el narcotráfico como su principal fuente de financiamiento y para ello cuenta con múltiples niveles del tráfico de drogas, que van desde el cultivo y producción de cocaína hasta el trasiego a través del uso de pistas de aterrizaje clandestinas”, detalla el reporte estadunidense.
Mexicanos en el campamento
MILENIO dio a conocer ayer que de acuerdo con informes del Ministerio de Defensa de Ecuador, al igual que activistas italianos, peruanos, chilenos y belgas, así como periodistas de diversos países, hubo más jóvenes mexicanos que acudieron al campamento de las FARC en Ecuador durante las últimas semanas.
Los nombres de los mexicanos que presuntamente estuvieron en el acantonamiento guerrillero atacado por el ejército de Colombia en la selva ecuatoriana de Sucumbío son: Antonio Pavel Blanco
Cabrera, Mariana López de la Vega, Miguel Ángel González de la Cruz, Luz Gabriel Mejía Leyva, Domenico Covarrubias, Dessire Robledo Torrano, Fernando Gabriel Franco, Vicente Huerta, Araceli Serna Espadas y Paulo Mendoza.
Para las autoridades ecuatorianas, los jóvenes, en su mayoría estudiantes de la UNAM , “eran simpatizantes y no integrantes armados del grupo guerrillero”, ya que sus visitas duraban apenas unas horas. (Quito, Ecuador • Diego Osorno, enviado)
México • Omar Sánchez de Tagle

reiteraMorett niega ante delegación de OEA militar en las FARCLa entrevista sólo duró unos minutos, también visitaron a otras sobrevivientes. La mexicana afirma que fueron dos los bombardeos contra el campamento.

La visitó el secretario general del organismo, José Miguel Insulza. Foto: Cecilia Puebla/EFE
11-Marzo-08

Lucía Andrea Morett Álvarez negó ser guerrillera de las Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (FARC) ante la delegación de la Organización de Estados Americanos (OEA) que la visitó para conocer su versión sobre lo sucedido el pasado 1 de marzo en los límites de Ecuador y Colombia.Morett Álvarez le dijo al secretario general del organismo internacional, José Miguel Insulza, que su presencia en el campamento guerrillero en la frontera ecuatoriana se debía a motivos académicos.De acuerdo con su madre, María de Jesús Álvarez, Lucía le relató a Insulza que en el campamento atacado por el ejército colombiano había varios civiles, además de reiterarle que cuando ocurrieron las hostilidades, la mayoría de los presentes dormían.Una comisión de la OEA concluyó ayer una visita por este país para conocer de fuentes directas lo sucedido el pasado 1 de marzo cuando unidades militares colombianas incursionaron en territorio ecuatoriano para aniquilar un campamento de las FARC en el que se encontraba uno de los dirigentes de esta organización, Raúl Reyes, junto con otras 25 personas más, por lo menos.“Las bombas”La joven estudiante de la UNAM le explicó al representante del organismo internacional que no fue uno —como se maneja hasta el momento— sino dos, los bombardeos aéreos que hubo contra el acantonamiento al que acababan de llegar.El encuentro ocurrido en el segundo piso del hospital militar de esta ciudad duró apenas unos minutos. Además de hablar con Morett, Insulza dialogó con Doris Bohórquez y Martha Pérez, las dos mujeres colombianas que se conoce que sobrevivieron junto con Lucía al ataque que incluyó el uso de bombas de fragmentación.“Como a media noche cayeron bombas. Yo estaba acostada ahí. Sentí un bombazo, caían palos, me tiré al suelo. Me arrastré como pude”, contó la colombiana, quien dijo que hacía labores de cocina para los combatientes. “Yo no me moví de ahí porque me di cuenta que estaba herida, no podía moverme. Nada más me arrastré un poquito hacia un lado”, dijo.El moño negroLa embajada de México en Ecuador se mantiene sin dar información sobre el caso de Lucia Morett. Algunos medios de comunicación ecuatorianos empezaban a cuestionar la inacción de los diplomáticos e incluso criticaron que las instalaciones oficiales no tengan colocado un moño negro, tal y como se acostumbra en las sedes oficiales cuando ocurre un suceso como éste.En ese contexto era como el recién llegado Juan Ignacio Piña, director para América Latina de la Secretaría de Relaciones Exteriores, sostenía ayer una serie de encuentros con autoridades ecuatorianas, como el ministro de Seguridad Interna y Externa, Gustavo Larrea.



Quito, Ecuador • Diego Osorno, enviado
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